• Questo evento è passato.

PRIMA NAZIONALE – ESCLUSIVA REGIONALE

L’importanza di chiamarsi Coltrane. Nel bene e nel male. Un bel vantaggio ma anche un peso, spesso non lieve. Quando l’immenso John morì, 17 luglio 1967, suo figlio Ravi aveva due anni. Nato a New York, la madre Alice – pianista, arpista e compositrice, devota di Sai Baba, che con John suonò ed ebbe tre figli, due musicisti e un dj – lo portò piccolissimo in California, al riparo delle frenesie della Grande Mela. E lì, il futuro sassofonista e compositore trovò la serenità per crescere, studiare e scegliere, una volta per tutte, la musica, dopo aver flirtato con cinema e fotografia che ancora oggi pratica con passione. «Abitavamo nella San Fernando Valley, venir su in California negli anni ’70 fu una buona cosa: era un posto molto tranquillo, così lo stile di vita e in più vivevamo anche un po’ appartati dalla comunità locale dei jazzisti. Ascoltavo molta musica alla radio e intanto la musica di mia madre stava un po’ cambiando, ovviamente ha avuto una grande influenza su di me. In una famiglia così la musica, tutta la musica, mi ha segnato da subito: sono cresciuto con la Motown, James Brown, la sinfonica, perché mia madre suonava molto Stravinski. Devo a lei la libertà e il rispetto per le scelte di noi figli. Mi sostenne molto nella mia scelta iniziale, a 12 anni, di fare film e foto, cosa che faccio ancora con grande passione, forse ne era un po’ contrariata ma mi aiutò lo stesso. Poi alla high school scoprii il clarinetto, che suonavo anche nella marching band della scuola. Nel ’91 tornammo a New York, che aveva un’energia molto diversa, e lì iniziò davvero la mia formazione di jazzista lavorando fino al ’93 con i Jazz Machine di Elvin Jones».

Solista brillante all’alto, al soprano e al clarinetto, compositore dotato e originale, sospeso fra retaggi hard bop e ricerca, Ravi Coltrane ha incontrato molti dei migliori della sua generazione: fra i tanti, Steve Coleman, guru del cruciale M Base e Don Byron, Lonnie Plaxico e Jeff “Tain” Watts che figurano nel suo primo disco, Moving Pictures, 1997, mentre Geri Allen, Ralph Alessi e James Genus sono in From The Round Box, 2000. Ma il contatto col passato, attraverso John e altri grandi suoi compagni e amici, non è stato certo meno importante. «Pharoah Sanders e McCoy Tyner, due uomini incredibili e musicisti di rara generosità, Elvin, Rashied Ali, Jack DeJohnette, mi hanno insegnato tutti moltissimo. E’ stato crescendo che ho avuto la piena consapevolezza di chi fosse stato mio padre, la sua completezza, la coerenza di uomo e artista, la sua creatività di pensatore. Difficile non essere influenzati dalla sua dedizione, passione e urgenza espressiva. Cose che ogni giovane artista tende ad abbracciare, e io non faccio eccezione. Portare il suo nome significa essere facilmente riconosciuti, ma pure distrarre gli altri da chi davvero sono io: per 20 anni nelle interviste mi hanno chiesto solo di lui, ne ho quasi 50 e ho lavorato molto per riuscire a dirlo. Sono estremamente fiero del nome che porto e della mia famiglia ma devo fare la mia strada, provare a creare qualcosa di significativo e sarebbe lo stesso se mi chiamassi Smith o Jones. In questo senso, fra i tanti, l’incontro con Steve Coleman ha rivoluzionato la mia vita di musicista, specie da un punto di vista ritmico: è un pensatore di rara espressività e preparazione, solo stargli vicino mi dava i brividi».

Il disco di Ravi, Spirit Fiction, 2012, ne ha segnato l’ingresso nella Blue Note, con la produzione di Joe Lovano. «Un grande onore, un sogno che si è avverato, anche se il digitale ha ormai riscritto per sempre le regole della discografia, e la musica è a forte rischio stagnazione perché tutti imparano secondo gli stessi canoni. Lovano l’ho incontrato nell’88, quando suonava con Rashied Ali e poi con John Scofield, l’ho frequentato moltissimo da allora, suonando e parlando tanto anche a casa sua, delle vere lezioni: è unico, la mia più grande influenza. Ha un tocco speciale. Dal 2007 ho ho lavorato molto da vicino con lui e Dave Liebman nei Saxophone Summit, coi quali ho inciso due dischi. In studio Joe impressiona per efficienza e rapidità, sa come catturare l’energia che ha creato». Sul palco con Ravi, il suo quartetto più rodato: il cubano David Virelles al piano, Dezron Douglas, contrabbasso, Jonathan Blake, batteria. In programma originali dei quattro e standard di Monk, John Coltrane e Charlie Haden.

articolo tratto da La Repubblica

Formazione Ravi Coltrane – sax David Virelles – piano Dezron Douglas double bass Jonathan Blake – batteria

Share